Sfido qualunque collega a dirmi che, durante la sua formazione, in particolare durante gli esami di clinica, non abbia associato, almeno una volta, sintomi e patologie a sé o a qualcuno di sua conoscenza. L′autodiagnosi ha colpito tutti noi ed era anche un esercizio divertente, nonché un′utilissima strategia per ricordare tutti i criteri diagnostici delle diverse condizioni patologiche: questa è zia, questo è papà, questa sono io.
Se il mio lavoro fosse solo quello di individuare la presenza o l′assenza di questo o quello, potrei farlo: ce l′hai, ce l′hai, non ce l′hai. È un processo che non richiede l′attivazione di dinamiche relazionali, ma di competenze diagnostiche di tipo categoriale (per intenderci una valutazione quantitativa e non qualitativa).
La psicoterapia, invece, è esattamente l′opposto, o meglio richiede l′integrazione di entrambe le parti: una di valutazione e una di cura. E la cura, in psicoterapia, passa attraverso la relazione con il terapeuta.
Ma concretamente che significa sta cosa della relazione che ormai dicono tutti gli psi?
Significa che il modo in cui mi sento io terapeuta con quel paziente in quel momento diventa parte della terapia perché è una porta d′accesso sul mondo del paziente e, se il mio sentire è contaminato da interazioni di natura personale, non posso utilizzarlo e si creerebbe una gran confusione. Allo stesso modo il paziente deve poter esprimere liberamente pensieri, emozioni, fantasie rispetto alla relazione con me.
Mettiamola così: è mia responsabilità assicurarmi che ci siano le condizioni affinché la persona possa proiettare su di me la sua realtà relazionale, interna o esterna. Il terapeuta deve essere come un quadro, o come un film di Sorrentino dato che siamo in tema: ognuno vede quello che gli pare perché attribuisce i propri significati a quello che vede ed è su quelli che si lavora in terapia, perché sono i significati che determinano la realtà. Conoscere già la storia di una persona altera questo processo di esplorazione e lo inquina, confondendo quello che già so, quello che ancora non so, il significato mio e il significato suo.
Situazione inventata: Mario durante una seduta mi dice che ha il timore di dirmi una cosa perché potrei giudicarlo.
Il fatto che Mario non mi conosca personalmente mi consente di esplorare questa convinzione chiedendogli per esempio da chi si è sentito giudicato nella sua vita cercando così di capire chi ha messo al posto mio. Se Mario mi conoscesse, magari quella cosa me la direbbe senza problemi e non ci sarebbe la possibilità di lavorare sulla sua parte giudicante e critica, oppure non me la direbbe comunque sapendo che in passato io mi sono davvero espressa critica su un tema simile.
La conoscenza tra terapeuta e paziente è un ostacolo, non un vantaggio.